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Decrescita Tragica

11/01/2021

Solo fino a pochi mesi fa, la discussione sulla decrescita felice era confinata ad una ristretta cerchia di persone, spesso additata come una comunità di utopici nostalgici e dileggiata dalla maggioranza dell’establishment e dell’opinione pubblica.

Il pensiero mainstream è che crescita e aumento del PIL siano tutte conseguenze ineluttabili e persino auspicabili del progresso. Ancora ricordiamo una delle “madamin” di Torino, che scesa in piazza durante il flash mob a favore della realizzazione del TAV, invitava i sostenitori della decrescita a ritirarsi in campagna, in compagnia di capre e vacche , e lasciare spazio ai promotori del vero progresso armati di acciaio, buldozer e trivelle.

In realtà il movimento della decrescita felice non è frutto dall’ingenua mente di qualche hippie figlio dei fiori, ma nasce da considerazioni economiche e scientifiche e dalla banale considerazione che una crescita infinita, economica, produttiva e demografica, è semplicemente insostenibile in un mondo di risorse finite. Tale crescita continua diventa fattibile nel breve termine solamente quando si accompagna ad un continuo depauperamento delle risorse naturali disponibili, allo sfruttamento di parti della popolazione umana, al continuo inquinamento ambientale, all’estinzione di centinaia e migliaia di altre specie di viventi.

Il coronavirus non è frutto del caso ma è una diretta conseguenza del nostro modo di concepire il progresso, la crescita, il benessere (che a ben vedere possiamo invece chiamare ben-avere). Gli scienziati infatti evidenziano come tutte le precedenti pandemie si siano sviluppate seguendo essenzialmente lo stesso schema: la distruzione di ecosistemi naturali portano a l’uomo a contatto con nuovi microrganismi per i quali non abbiamo ancora sviluppato l’immunità; gli allevamenti intensivi e superintensivi spesso contigui a vaste area di popolazioni che vivono in condizioni di sfruttamento consentono ai virus di moltiplicarsi, mutare e balzare da una specie all’altra, incluso l’uomo (salto di specie); la prossimità a vaste aree urbane e mega-urbane favoriscono l’incubazione, la moltiplicazione e la selezione dei virus (esattamente come avviene in una cultura di laboratorio); l’iperconnettività delle nostre comunità mondiali favorisce la rapida diffusione del virus e la vasta quantità di materiale umano contagiabile moltiplica le capacità dei virus di modificarsi in forme via via più subdole e che si ripresentano in ondata successive; la globalizzazione e l’interdipendenza delle economie mondiali che negli anni hanno praticamente annullato la resilienza delle economie locali, porta rapidamente al collasso che si manifesta nella mancanza di approvvigionamento di generi necessari alla sicurezza e persino di servizi necessari alla vita (ad esempio energia e cibo).

Ma prima ancora di arrivare a questo collasso intervengono altri fattori, come la paralisi produttiva e la crisi delle borse – in conseguenza di speculazioni che conosciamo molto bene e che noi stessi abbiamo rese possibili e perfettamente legali – che contribuiscono ad affondare le economie ed evocare le spettro di una nuova recessione. In questo quadro le economie più deboli vengono attaccate per prime e queste contribuiscono, in una sorta di effetto valanga, a trascinare verso il basso i consumi, la produzione, e l’intera economia mondiale.

Durante la crisi del coronavirus stiamo toccando con mano la fragilità del grande castello che abbiamo costruito e come sia possibile passare in poche settimane ad una crisi globale che gli esperti di dicono essere la peggiore dal secondo dopoguerra. Ma come spesso di dice, ogni crisi rappresenta anche una grande opportunità. Ed oggi è più vero che mai. Molti illustri opinionisti, scienziati ed economisti, cominciano ad azzardare ipotesi secondo le quali la crisi sanitaria che investe non solo l’Italia ma il mondo intero, potrà essere affrontata solo rivedendo a livello globale quelle regole che fino ad oggi hanno governato l’economia, gli scambi commerciali, il mondo dell’agricoltura e forse, auspicabilmente, anche le abitutidini personali di ciscuno di noi. In qualche modo avremo l’opportunità (e direi anche la grande responsabilità) di essere artifici di un cambiamento che valorizzi le creazione di una rete di comunità locali resilienti, con tutto quello che tale resilienza implica ovvero:- la capacità di produrre localmente tutti i servizi essenziali alla vita (energia, cibo, acqua, assistenza sanitaria)- la capacità di utilizzare risorse rinnovabili locali- la capacità di non produrre rifiuti- la capacità di condurre stili di vita più sobri- la nostra disponibilità a politiche sociali eque e solidali verso i più deboliTutto questo implica ridisegnare le economie, le produzioni, le regole di mercato, gli scambi import-export, gli usi e i costumi. Significa inoltre sapere accettare e guidare la decrescita attraverso un enorme cambio culturale e del paradigma produttivista-consumista.Tuttavia, mentre fino a ieri la decrescita felice sarebbe stata auspicabile e volontaria oggi, come giustamente osservato da Corrado Augias, dovremo accettare obtorto collo una descrescita tragica. Con buona pace delle “madamin”.

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